Come Comitato Piazza Carlo Giuliani esprimiamo tutta la nostra solidarietà alle compagne e ai compagni dell’Askatasuna. A Torino come a Genova e a Milano assistiamo alla messa in atto della volontà del governo Meloni di voler sgomberare, chiudere e zittire tutti gli spazi liberi di autodeterminarsi, incompatibili con la visione autoritaria del governo. È il momento di dire basta e di rialzare la testa. Siamo e saremo sempre al vostro fianco.
Torino e Genova parlano la stessa lingua quando si tratta di spazi sociali: quella della criminalizzazione sistematica e della repressione amministrativa e giudiziaria. Lo sgombero di Askatasuna non è un’eccezione né un’anomalia territoriale. È un passaggio coerente dentro una strategia che, negli ultimi anni, abbiamo visto applicare più volte anche a Genova.
A Genova i centri sociali sono stati sgomberati uno dopo l’altro, con modalità diverse ma con una narrazione sempre identica: riduzione degli spazi a “problemi di ordine pubblico”, cancellazione del loro ruolo sociale, rimozione di ciò che producono in termini di mutualismo, cultura, aggregazione. Luoghi complessi vengono semplificati fino a diventare dossier, fascicoli, numeri. Così diventa più facile colpirli.
Torino oggi si inserisce nello stesso schema. Askatasuna non viene attaccata per quello che fa, ma per quello che rappresenta: uno spazio che non dipende da logiche istituzionali, che costruisce autonomia, che rende visibile un’organizzazione dal basso. È esattamente ciò che è accaduto a Genova: non si sgomberano solo dei muri, si tenta di interrompere processi sociali.
Questi interventi non avvengono mai nel vuoto. Producono un effetto preciso: restringere gli spazi dell’agibilità politica, scoraggiare la partecipazione, isolare le comunità. La repressione funziona anche così, per accumulo, città dopo città, sgombero dopo sgombero.
Mettere in relazione Torino e Genova non significa forzare un paragone, ma riconoscere una continuità. Difendere gli spazi sociali oggi vuol dire leggere questa continuità, nominarla, e costruire risposte collettive. Perché se la strategia è diffusa e ripetuta, anche la resistenza non può che esserlo.

