L’AMBIENTE TERRA DI CONQUISTA DELLA CRIMINALITÀ

Tre reati contro l’ambiente ogni ora, un giro d’affari di 23 miliardi di euro. Questi i numeri della criminalità ambientale raccolti nel Rapporto Ecomafia 2007 di Legambiente.
La realtà è impressionante. I quantitativi di rifiuti smaltiti illegalmente non sono neppure quantificabili e spesso si tratta di residui altamente pericolosi che finiscono per contaminare aree molto vaste. Non c’è tipologia di rifiuto, rotta di transito e sito finale di smaltimento che possa sfuggire alle mire dei trafficanti del nostro paese che dimostrano una grande fantasia. Così fanghi industriali diventano fertilizzanti per essere utilizzati nelle aziende agricole, polveri di abbattimento di fumi finiscono nelle fornaci che producono laterizi, residui di fonderia vengono smaltiti illegalmente nelle fondamenta di cantieri edili, rifiuti speciali vengono trasformati in innocui rifiuti urbani da avviare a impianti di incenerimento.

LA PARTECIPAZIONE CONTRO IL SACCHEGGIO DEL TERRITORIO

La Zincheria Valbrenta di San Pietro di Rosà vanta il primato di aver inquinato ancora prima di iniziare l’attività. Nel 1997 il Comune approva la variante al PRG che legittima costruzione della zincheria anche se il PRG approvato dalla Regione Veneto esclude ogni possibile utilizzazione dei terreni salvo quella agricola, e nonostante la presenza di un sito archeologico romano-longobardo. Altri intoppi “burocratici” vengono abilmente aggirati: la Asl e l’Arpav daranno il permesso all’insediamento dell’azienda senza valutarne l’impatto ambientale sulla base di planimetrie in cui vengono opportunamente cancellate le case presenti nell’area. Solo nel luglio del 2002 il Comune si accorge delle irregolarità, ma ormai il danno è fatto e non si può fare altro che accettare l’inevitabile.
Nasce il comitato, si svolgono assemblee, vengono sollecitati gli interventi dell’Asl e dell’Arpav di Bassano del Grappa e viene presentato un ricorso al Tar per le irregolarità riscontrate nell’approvazione del progetto. Come risposta, Stefano Zulian presidente del comitato è denunciato dalla Zincheria Valbrenta per diffamazione.
Nel 2003 il prefetto di Vicenza blocca il cantiere per violazione della legge sugli impianti pericolosi. Mentre la zincheria si adopera per giustificare gli abusi commessi, il comitato inizia una capillare indagine che porta alla scoperta di documenti falsi, approvazioni illegittime, delibere contrastanti, denunce archiviate senza motivo, pratiche legali sparite nel nulla, conflitti di interesse da parte di chi ha seguito le indagini. Le indagini e le sentenze dei tribunali amministrativi non servono a niente se nessuno le applica. Alla zincheria i lavori continuano, giorno e notte, festivi inclusi. Il cantiere cresce e si arricchisce di spazi non previsti nella concezione edilizia e con l’apporto di materiali inquinanti quale sottofondo per piazzali e vasche.
Finalmente la Procura di Bassano mette sotto sequestro il cantiere. Pochi giorni dopo il presidente del Comitato Stefano Zulian viene aggredito da ignoti. Intanto il Comune, in base a rallentamenti e omissioni procedurali, riesce a far dissequestrare il cantiere. Le minacce e le denunce però non fermano la protesta. Gli attivisti del comitato prelevano dal cantiere campioni di materiale e li fanno analizzare. I risultati parlano chiaro: si tratta di sostanze tossiche, metalli pesanti, cadmio, zinco, ferro, piombo, oli e solventi in quantità non previste dalla legge. Malgrado ciò la Procura di Bassano archivia l’inchiesta mentre l’Agenzia per l’ambiente si astiene dall’effettuare esami per “evitare allarmismi”.
Nel 2005 il Comune di Rosà risolve l’abuso edilizio attuato dalla zincheria con la corresponsione di 1,5 milioni di euro, motivandolo con “la doverosa tutela di oltre trent’anni di attività e la salvaguardia del posto di lavoro di ottanta famiglie legate e affezionate all’azienda”.
Nel frattempo il muro di omertà inizia a sgretolarsi. Giornali e televisione si occupano della vicenda e il caso arriva alla commissione parlamentare contro le ecomafie. Viene ordinata una nuova perizia che stabilisce che su quel terreno c’è effettivamente poliacrilamide. L’industria sporge denuncia contro ignoti: quel materiale tossico, dice, è stato gettato lì volutamente, per incolpare la zincheria. Alla fine del 2006 la fabbrica è pronta, 140 mila metri quadrati di devastazione in cui lavorano tra le 50 e le 70 persone.
Nonostante gli ostacoli e l’inerzia della giustizia e la lentezza di chi deve tutelare la salute pubblica, il presidio dei cittadini resiste e continua la sua attività: “Vorremmo che la nostra storia venisse raccontata perché non è un caso isolato, ma è esemplare di come mafia e illegalità si siano impossessate della nostra regione e può far capire quanto non ci sia tempo da attendere per agire in modo coordinato contro l’illegalità diffusa ormai a tutti i livelli”.

UN DISASTRO AMBIENTALE NELLA VALLE DEL SACCO

Bisogna ormai metterla tra i siti più inquinati d’Italia, come il complesso petrolchimico di Porto Marghera, quelli siciliani di Gela e di Priolo, o l’impianto Ilva di Taranto. Si tratta della Valle del fiume Sacco, tra Roma e Frosinone: qui, nel 2005, è scoppiata una vera e propria emergenza ambientale e più di cinquanta aziende agricole e zootecniche hanno visto la loro attività irrimediabilmente distrutta dall’avvelenamento dei terreni. L’allarme è scattato quando decine di capi di bestiame hanno misteriosamente cominciato a morire. E’ risultato poi che il latte prodotto da bovini e ovini che hanno sempre pascolato lungo la media valle del fiume è inquinato dal beta-esaclorocicloesano, un antiparassitario simile al Ddt, presente in concentrazioni anche 2000 volte superiori ai limiti permessi dalla legge.
Il beta-esaclorocicloesano per la verità era già comparso nella Valle del Sacco: nel 1990 altri controlli ne avevano segnalato la presenza. Un’inchiesta giudiziaria rivelò che la Snia-Bpd, un’industria di Colleferro, aveva interrato per decenni gli scarti della sua produzione di pesticidi e materiale bellico in un’area vicino il fiume. durante l’indagine un operaio, Luigi Mattei, ha ricordato che spesso le aziende della zona lasciavano i loro rifiuti, incluso l’amianto, in discariche all’aperto vicino al fiume. Il tribunale di Velletri ingiunse allora alla Snia di bonificare l’area di sua proprietà, ma l’industria chimica non agì di conseguenza, proponendo anzi al Ministero dell’ambiente di realizzare in quel sito una discarica destinata ai rifiuti tossici. Un modo per aggirare il provvedimento del tribunale e tradurre un problema in un affare. La discarica non è stata autorizzata, ma, d’altra parte, nessuno si è mosso per decontaminare i terreni del Sacco.
Finché nel 2005 scoppia di nuovo il «caso» ambientale. In breve tempo è stato necessario vietare l’uso dei foraggi dell’area, poi di produrre latte e carne: finché il 19 maggio di quell’anno il governo ha dichiarato lo stato di emergenza socio-economico-ambientale per i comuni di Colleferro, Segni e Gavignano in provincia di Roma e per quelli di Paliano, Anagni, Ferentino, Sgurgola, Morolo e Supino in provincia di Frosinone. Da allora nella Valle del Sacco è vietata la produzione agricola a scopo alimentare.
Gli abitanti di un’intera valle si sono chiesti cosa fare per bonificare quelle terre, per non far morire l’agricoltura. Gli amministratori regionali hanno risposto con un progetto pilota per la produzione di biocarburanti. Attraverso la coltivazione di particolari sementi, dicono, si avrebbe una progressiva decontaminazione dei terreni inquinati e insieme si aprirebbe una filiera agricola capace di soddisfare il 5% del fabbisogno di carburante per il trasporto pubblico regionale. Il progetto, proposto dalla Regione Lazio e sottoscritto dalla Coldiretti, prevedeva di coltivare circa centomila ettari a colza e a girasole.
«Biocarburanti» è una parola ambigua: dovrebbe indicare quei carburanti di origine «bio», naturale. Anche il petrolio nasce dalla materia organica, rimasta sepolta in assoluta assenza di ossigeno per secoli. Per «biocarburanti» però oggi si intendono quelli ottenuti dalla lavorazione di derrate agricole e dalle biomasse – «agrocarburanti». Negli ultimi anni, tra il rincaro del prezzo del greggio e all’esaurimento delle riserve petrolifere, molti governi hanno ne incentivato la produzione: l’Italia, secondo lo studio Biofuels Country Attractiveness Index della Ernst & Young, è al nono posto al mondo per gli investimenti nel settore, e l’Unione Europea nel 2007 ha stanziato 785 milioni di euro a beneficio di questo comparto. E però convertire vaste estensioni agricole al biocarburante signirica togliere terra alla produzione alimentare, e quindi far rincarare il cibo. Intanto, nella Valle del Sacco, i produttori locali aspettano ancora che il progetto agroenergetico sia avviato. Intanto hanno cominciato a organizzarsi in proprio per produrre biogas dai rifiuti organici e dal letame degli allevamenti. [Il Manifesto – 24/02/2008]

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