“Ieri 20 luglio 2018 di nuovo in Piazza per non dimenticare. 
Per non dimenticare Carlo, per non dimenticare la violenza subita dalla democrazia in quel tragico, caldo luglio del 2001.
E tutti gli anni arriviamo più vecchi, più stanchi, più delusi e ce ne andiamo più ricchi di voglia di continuare a lottare fino a che le forze ci sosterranno. Ci scambiamo abbracci con i nostri capelli bianchi, a volte stentiamo a riconoscerci ma comunque ci stringiamo forte tra un sorriso e un velo di tristezza.. Guardiamo i nostri figli che hanno la stessa età di Carlo e che ancora si chiedono il perché di tutta quella violenza, i loro figli che ancora non hanno ben capito perché sono lì ma che ascoltano le canzoni belle, forti, partigiane. E pensiamo già al prossimo 20 luglio 2019.”
Gabriella


Lorenzo Guadagnucci*
da Il Manifesto
In piazza alimonda per non rassegnarsi alla sconfitta
“Si torna a Genova come ogni anno e sotto il palco di piazza Alimonda la memoria corre a quel giorno maledetto, quando un ragazzo rimase sull’asfalto, colpito alla testa da un colpo di pistola, il corpo calpestato dalla camionetta dei carabinieri, il cranio sfregiato con una pietra. E’ giusto chiedersi perché ci ritroviamo qui, chi con il corpo chi nello spirito. Siamo reduci? Nostalgici? Sconfitti dalla storia che tornano sul luogo delle proprie gesta e degli altrui delitti? Forse sì, ma è possibile che ci sia qualcos’altro. Che Genova G8 ci riguardi ancora. In questi giorni tempestosi, di violenza del potere nel mar Mediterraneo, di sghangherata critica alle tecnocrazie globali in nome di rinascenti e osceni nazionalismi, le giornate di Genova, i sette giorni di contestazione e di proposta organizzati durante il vertice dei cosiddetti Otto Grandi (che così Grandi poi non erano) appaiono come un approdo, anziché un residuo della storia. Lasciamo pure da parte il sottile senso d’angoscia e d’impotenza che suscita, confrontato all’oggi, il ricordo della miriade di persone e organizzazioni venute a Genova richiamate da un nuovo movimento capace di mostrare il vero volto del potere (il pensiero unico neoliberista, tema all’epoca assente dall’agenda politica e mediatica) e pensiamo alle molte buone ragioni messe in campo da quel movimento. E’ un elenco che sorprende, sia nella parte critica sia in quella propositiva. Dalla rivolta di Seattle (dicembre ’99) in poi e fino al luglio genovese, passando per una serie di contestazioni a riunioni delle varie istituzioni della tecnocrazia globale, il movimento mise a nudo e denunciò, per limitarsi ai punti essenziali: la finanziarizzazione dell’economia neoliberale e le crescenti diseguaglianze fra nord e sud del mondo; la nuova dislocazione dei poteri, non più a livello nazionale ma nella grande finanza e nelle istituzioni globali al suo servizio (Wto, Fmi, Banca mondiale, il cosiddetto “Washington Consensus”); la mercificazione del lavoro e della stessa vita umana, con annessa libertà di circolazione per i capitali ma non per le persone… La parte propositiva non era meno ricca di spunti e di esperienze: una Tobin Tax sulla speculazione finanziaria; la cancellazione del debito pubblico iniquo; l’idea di un’altreconomia, liberata dalla schiavitù della crescita e capace di includere in sé il limite ecologico allo sviluppo; un contratto mondiale per l’accesso all’acqua; il bilancio partecipativo nelle amministrazioni locali… E così via. Sorprende, questo parziale elenco, perché fornisce ancora oggi una visione del mondo alternativa allo status quo; una visione costruita con competenza e spesso attraverso la pratica concreta; una visione che è stata anche aggiornata da alcuni nuovi movimenti in varie parti del mondo. A distanza di tanti anni capiamo meglio che nel luglio 2001 fu affossata a colpi di pistola, di manganello e con la tortura un’idea di mondo che stava riscuotendo troppo consenso. Troppo vasta e soprattutto troppo varia, ben oltre i confini storici della sinistra, era la partecipazione di singoli, associazioni e movimenti: occorreva colpire e criminalizzare tutto ciò, dichiararlo fuori legge, escluderlo dal discorso pubblico; occorreva rendere inascoltabili le parole dette nei convegni, nei seminari, in quell’università popolare a cielo aperto chiamata Forum sociale mondiale. E tuttavia sarebbe difficile sostenere che le idee di quel movimento sono state davvero annientate ed escluse per sempre dalla storia. Non è così. Quelle idee non sono morte e anzi continuano a ispirare persone e movimenti attraverso i continenti; sono all’origine di progetti politici, sociali, esistenziali radicati nel presente e capaci di futuro. Resta preziosa anche la lezione di metodo: niente steccati fra culture diverse e unione delle forze per dare spessore politico all’azione sociale condotta fuori dagli schemi del mercato, cioè secondo giustizia, empatia, nonviolenza. A Genova è morta semmai in molti cittadini la fiducia nello stato e nei suoi apparati di sicurezza, incapaci negli anni di ammettere le proprie colpe e recuperare la credibilità perduta. A Genova è morta quella sinistra che non volle capire che c’era (e rimane) una nuova linea di demarcazione rispetto alle destre: l’adesione o meno al modello neoliberale. Oggi – passata, anzi ancora in corso una crisi finanziaria più che prevedibile e col “Washington Consensus” in crisi d’identità – succede che una contraddittoria e confusa critica alla globalizzazione neoliberale viene condotta lungo un binario che porta a rinascenti quanto pericolosi nazionalismi. E’ una capriola della storia che spaventa ma che aiuta anche a pensare. Fa capire che la critica dei movimenti sociali al pensiero unico è ancora attuale e che le vie d’uscita esistono, nonostante le sconfitte e un certo scoramento del tempo presente. Quindi si torna a Genova e si pensa che la memoria è generosa, le buone idee tenaci, la storia imprevedibile; visto da piazza Alimonda, il futuro è ancora aperto.”
*Comitato Verità e Giustizia per Genova


Di quei giorni a Genova ricordo tutto, anche l’ odore di sudore e gas. Ricordo I visi stanchi, I km di cammino, il rumore degli elicotteri, le sirene. Ricordo chi mi ha aperto il portone di casa per salvarmi da un massacro, ricordo le facce dei compagni persi per ore e ritrovati dopo quella telefonata.
“hanno ucciso un compagno Ka. Tu dove sei? Come stai? “
Silenzio
HANNO UCCISO UN COMPAGNO 
A 18 anni ho assaggiato il sapore della rabbia, le lacrime. 
In fin dei conti Carlo nemmeno lo conoscevo eppure ero con lui, nella stessa Genova, dentro lo stesso inferno, e lottavamo entrambi per la stessa cosa.
HANNO UCCISO UN COMPAGNO : 4 parole che hanno cambiato la mia vita di militante, di antagonista. 4 parole che mi hanno insegnato ad andare avanti nonostante uno di noi non ci fosse più.
Perché Carlo era uno di noi, non l’avevo mai visto ma era mio fratello, non eravamo insieme fisicamente ma era parte di me e mi manca ogni giorno. 
Ciao Carlo
Jules Bonnot


Ciò che forse sfugge a coloro che si sentono in diritto di profanare ogni post in ricordo di Carlo Giuliani è che nel giorno della sua morte moltissima gente che manifestava a volto scoperto e disarmata (anzi, vorrei dirvi, SOPRATTUTTO la gente che manifestava a volto scoperto e disarmata) è stata massacrata a manganellate, calci e pugni, è stata pestata a sangue in strada e poi in una scuola, tirata fuori dagli ospedali e pestata di nuovo, privata dei più elementari diritti umani, violata in ogni modo. Forse non avete mai visto il ragazzino preso a calci in faccia da un gruppo di poliziotti capitanati da Perugini, numero due della Digos: un minorenne ridotto a una maschera di sangue, con un occhio che sembra esplodere. Forse non sapete che tentarono di incriminarlo per “resistenza a pubblico ufficiale e lesioni”. Forse non avete visto in mille video le donne in fuga dagli scontri accolte a manganellate dalle forze dell’ordine. Non avete visto, non avete sentito, la poliziotta che di fronte al cadavere di Giuliani esulta dicendo “uno a zero per noi” e “speriamo che muoiano tutti”. Non avete visto la gente ferma, seduta in terra, le mani alzate, gente di ogni età, che viene picchiata per ore da gruppi di esaltati in divisa. Forse ogni volta che parlate di quell’estintore pensate che Carlo Giuliani lo abbia preso così, uscendo dal salotto di casa sua già col passamontagna calato, per il gusto di andarlo a tirare a Placanica. Forse non avete visto tutto ciò che in quei giorni è accaduto PRIMA che Carlo prendesse in mano l’estintore, non avete visto ciò che avrebbe fatto sollevare quell’estintore a migliaia, milioni di persone, non avete visto i caroselli delle camionette che inseguivano la gente fin sui marciapiedi, che acceleravano per investire i manifestanti, non avete visto ragazzi e ragazze intrappolati in un imbuto, picchiati senza alcun motivo per due ore, senza alcuna via d’uscita.
Non sapete tutto questo, non conoscete tutto questo, e allora quel gesto di Giuliani vi pare così illegale, così forte da meritare – abbiate il coraggio di chiamarla col suo nome – un’esecuzione.
Perché certo, siete tutti molto bravi a parlare delle scelte di Carlo Giuliani mentre nessuno manganella i vostri amici o tenta di schiacciarli con un blindato. Tutti bravi coi vostri distinguo. Quando la rete chiama siete tutti Charlie, però incredibilmente fate una gran fatica a essere un ragazzo di 23 anni che reagisce alla mattanza dei suoi amici. Non dico a essere proprio lui, col passamontagna e l’estintore, ma almeno a capire cosa lo porta davanti alla pistola di Placanica, e chi dei due è l’assassino. Almeno questo. 
“Io non l’avrei mai fatto”, ripetete ogni anno, dal divano di casa o dal tavolino di un bar, sorseggiando un Campari. Ma forse, ecco, se invece vi trovaste in una bolgia con le autoblindo che cercano di investire i vostri amici e le vostre amiche, tra le cariche indiscriminate, gli occhi e la gola in fiamme per i gas urticanti usati contro gente inerme, poliziotti che lanciano pietre contro il corteo rischiando di uccidere qualcuno, magari questo amabile distinguo pronunciato con 60 pulsazioni al minuto e tutta la sicumera del mondo potrebbe non essere la prima cosa che vi passa per la mente.
E poi c’è sempre quel piccolo particolare che vi sfugge: forse non vi siete mai accorti che l’estintore Carlo lo prende DOPO che Placanica ha già puntato la pistola contro un altro ragazzo. Dopo, non prima (vi aiuto con questa foto, finalmente dopo 17 anni potete farcela).

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Carlo non “se l’è cercata”, come dite voi. Non ha avuto “quel che meritava”. 
Avete mai visto le cariche dei tifosi contro la polizia allo stadio? Perché ecco, lì ogni domenica ci sono cose dieci volte più violente e spaventose di quel singolo gesto di Carlo, eppure sono sicuro che se domani venti ultras venissero giustiziati con un colpo alla testa voi stessi non direste mai “se l’è cercata”.
Ma lo so, parlate così perché non conoscete la storia di quei giorni, perché non avete capito, nemmeno dopo 17 anni, cosa è successo durante quel G8, quali orrori hanno spinto Amnesty International a definire gli abusi di Genova “la più grave violazione dei diritti umani in un paese democratico dal dopoguerra”.
Forse non avete visto, non sapete, che dopo averlo ucciso i carabinieri hanno “lavorato” il corpo di Carlo con una pietra, per dare la colpa della sua morte ai “comunisti” che manifestavano con lui. Forse non sapete cosa è successo alla Diaz, a Bolzaneto, a gente che non aveva con sé alcun estintore e nonostante questo è scomparsa per ore nel vuoto giuridico di una caserma, è stata seviziata, abusata. Non sapete di quella ragazza cui sono stati strappati i piercing, delle sigarette spente sui corpi degli arrestati, non avete sentito raccontare di quei ragazzi costretti a stare in piedi per ore e ore, costretti a cantare “faccetta nera”, non sapete di quei ragazzi le cui teste venivano sbattute violentemente contro il muro, di quei ragazzi immobilizzati e presi a calci nei genitali, di quei ragazzi cui veniva vietato persino di andare in bagno, e finivano per defecarsi nei pantaloni. Voi non sapete del ragazzo a cui sono state divaricate le dita fino a romperle, scarnificarle strappando la pelle che è stata poi ricucita senza anestesia. Non sapete della ragazza costretta a infilare la testa nel buco del cesso alla turca, mentre la minacciavano di stupro con un manganello. Voi non avete visto, non avete sentito gli agenti di Bolzaneto che cantavano: “uno, due, tre, evviva Pinochet, quattro, cinque, sei, a morte gli ebrei”. 
E però, se non avete visto, se non avete sentito, se non sapete, uno si domanda pure: ma perché cazzo parlate, con che diritto parlate? Con che stomaco andate sulle bacheche di chi piange Carlo Giuliani, e gli rompete i coglioni?
Quale forza perversa vi spinge a venire a violare il nostro lutto, a profanarlo? Ma che razza di persone siete?
Francesco Trento