CARLO GIULIANI VIVE NEL SAHARAWI

Il nome di Carlo Giuliani risuona nel deserto. Se attraversando le alte dune sabbiose dell’inospitale Sahara occidentale sentiste bambini festanti che urlano il nome dello sfortunato ragazzo e leggeste una targa che dice: “… Giovane italiano che ha creduto alla solidarietà tra i popoli…”, non state avendo un’allucinazione. Una scuola elementare, costruita grazie alla solidarietà degli anziani volontari dell’associazione Auser, porterà il suo nome. La scuola, che può ospitare oltre 600 bambini dai 5 ai 12 anni d’età, sorgerà a Dakla, nel deserto del Saharawi. L’inaugurazione a cui parteciperanno il padre Giuliano Giuliani e una folta delegazione dell’Auser, è fissata per il giorno 27 febbraio, in occasione dell’arrivo della Maratona internazionale del deserto.

“Nella scuola elementare “Carlo Giuliani”- sottolinea Luigi De Vittorio vicepresidente nazionale dell’Auser – tanti bambini studieranno per diventare cittadini di domani e per dare una speranza a questo popolo che da 26 anni vive nel deserto in attesa di ritornare nella propria terra. Abbiamo deciso di intitolare la scuola a Carlo Giuliani per ricordare la sua passione politica e gli slanci ideali che lo animavano, accomunandolo a tanti altri giovani nel mondo”.
“La realizzazione di questo progetto ha impegnato migliaia di volontari di tutta Italia – continua De Vittorio – che hanno raccolto oltre 43 mila euro sufficienti per costruire questa scuola elementare. Tuttavia il nostro impegno continua. I Volontari dell’Auser sono attivi per raccogliere ulteriori fondi per fornire gli arredi e il materiale didattico”.
Alla realizzazione del progetto ha contribuito anche la Fondazione “Carlo Giuliani” che per volontà dei genitori ha destinato un contributo finanziario all’iniziativa e che realizzerà un documentario sulla scuola e sulla vita del popolo Saharawi.
“C’è un proverbio del popolo Saharawi che mi piace ricordare, dice Giuliano Giuliani. Possono uccidere il gallo che canta l’alba, ma in nessun modo potranno arrestare l’arrivo dell’alba”.
Ufficio Stampa e Comunicazione Auser Nazionale

LA SCUOLA IN SAHARAWI

La “nuova” Dakla si trova all’estremità sudoccidentale del deserto algerino. E’ una delle quattro province amministrative dove vive, o sopravvive, una parte considerevole del popolo Saharawi. Dal 1975. Sedici anni di guerra con il Marocco, che ha occupato la loro terra, il Sahara occidentale, e costruito a ridosso del confine un muro di pietre e sabbia, alto una ventina di metri e lungo quasi duemila chilometri, presidiato militarmente. Poi dodici anni di pace, o meglio di non ostilità, con i “caschi blu” a fare da osservatori e da garanti, ma con più di trenta risoluzioni dell’ONU, favorevoli al ripristino del diritto all’esistenza di uno Stato indipendente, rimaste sulla carta.
A Bir Anzaran, uno dei sette comuni della provincia di Dakla, è stata costruita una scuola elementare per circa seicento bambini. Lo ha reso possibile un progetto dell’AUSER, al quale ha contribuito il Comitato Piazza Carlo Giuliani. E’ stata inaugurata giovedì scorso, dal canto e dagli occhi luminosi dei bambini, dalla gratitudine delle madri, dalla fiera speranza non sopita dei vecchi. Mi è toccata l’emozione incontenibile di tagliare un nastro e di varcare una porta sulla quale una targa porta il nome di mio figlio.
Carlo mi ha regalato anche questo: la conoscenza diretta delle condizioni in cui vive la testimonianza in carne ed ossa della parte grande del pianeta, incomparabile con quello che si legge o che ti raccontano. E poi il contrasto tremendo con il fascino assurdo del deserto, apparentemente così uguale e invece così continuamente diverso, chilometro dopo chilometro.
Qui si vive di sussistenza, dell’aiuto della solidarietà internazionale. C’è bisogno di tutto. Manca tutto. Se ti ammali di qualcosa di serio, il centro più vicino dove hai qualche probabilità di scampo è a quattro, cinque ore di jeep, lungo piste che di sicuro hanno soltanto i continui sobbalzi. Le gastroenteriti e le malattie dell’apparato respiratorio sono all’ordine del giorno, come i problemi alla vista. Effetto dell’acqua di cisterna, della sabbia sollevata dal vento che soffia di continuo e della luce accecante. Condizioni igieniche spaventose. A cento metri dalle tende e dai monolocali di argilla, gli escrementi delle molte capre e dei pochi cammelli si mescolano a quelli umani. La plastica la fa da padrona, a un tempo simbolo e indistruttibile contenitore della generosità solidale, compresa la contraddizione delle bottiglie di cocacola, con la doppia scritta in arabo. I mucchi di rifiuti ti segnalano anzitempo l’approssimarsi dei campi, dove risiedono le comunità. Abbiamo visitato un orto, dodici ettari di deserto che un temerario progetto spagnolo sta trasformando in produzione di carote, zucchine e peperoni, piantine inumidite da impianti a goccia, una alla volta, una paziente sfida della vita. E un altro spazio, qui non manca, per produrre foraggio per le capre, sottraendole così, per quanto possibile, alla loro razione quotidiana di plastica.
Ciascun progetto ha un costo. Niente, se confrontato con il costo di un Cruise portatore di morte e di distruzione. Qui la violenza allucinata la misuri ancora di più, perché ti guardi attorno e traduci le bombe e i missili in impianti per la purificazione dell’acqua; in case che abbiano qualche pietra in più e un po’ di argilla in meno, e siano quindi capaci di resistere alla pioggia che arriva ogni dieci anni; in pannelli solari e in generatori capaci di alimentare un frigorifero che permetta ai farmaci del dispensario di conservarsi, invece di marcire aumentando il senso di impotenza e la delusione del medico; in strumenti di lavoro e in corsi di formazione.
Qui la violenza allucinata la leggi nei volti accigliati di chi ascolta, da un vecchio televisore in bianco e nero alimentato da un minuscolo pannello, i servizi di al-Jazeera, dove scorrono le fotografie dei cinque corrispondenti uccisi (fuoco amico o effetto collaterale?), le immagini sconvolgenti dei morti innocenti, dei feriti, delle case rase al suolo, delle distruzioni, delle razzie, dell’unico presidio al ministero del petrolio. Troppo per salutare con entusiasmo la fine di Saddam, che pure aveva appoggiato il Marocco.
Trascorrere qualche giorno in Saharawi mi ha risparmiato lo “spiffero gelido” di una recente intervista. C’è una strada da scegliere senza esitazioni per sentirsi con orgoglio parte dell’Occidente: fare in modo, ciascuno per le proprie responsabilità e capacità, che le distanze abissali fra l’isola ricca e l’oceano povero non si accrescano, comincino a ridursi per realizzare forme concrete di riequilibrio. Che è poi l’unico modo per garantire pace e democrazia.
Giuliano Giuliani

BREVE STORIA DEL POPOLO SAHARAWI

Il Sahara Occidentale è un territorio di circa 266.000 Kmq che si affaccia sull’Atlantico per un migliaio di chilometri, confina con il Marocco, l’Algeria e la Mauritania.
I suoi confini sono convenzionali, poiché seguono in parte l’andamento dei paralleli e dei meridiani, tracciati dalle diplomazie europee in seguito alle decisioni della Conferenza di Berlino del 1884/85. Zona in gran parte desertica, ma ricchissima di risorse minerarie (tra i maggiori produttori di fosfati al mondo) e dalle coste molto pescose, era la patria del popolo Saharawi.

Il popolo Saharawi

Il popolo Saharawi discende dall’incontro e dalla fusione, protrattasi per secoli, di gruppi nomadi berberi (tribù Sanhaya e tribù Zenata) con genti arabo-yemenite (i Maquil) giunti in Nord Africa intorno al XIII secolo.
Un lento processo di fusioni ha dato origine alle tribù di cui ancora oggi i Saharawi conservano la memoria e a cui fanno risalire la propria origine. L’arabizzazione, molto intensa in alcune tribù, ha lasciato una traccia profonda nella lingua hassaniya, comune a tutte, molto vicina all’arabo classico. La religione è l’Islam sunnita, come nella maggior parte del Maghreb.
L’organizzazione sociale era basata su un consiglio (Consiglio dei quaranta) che riuniva periodicamente i capi delle tribù per prendere collegialmente decisioni che riguardavano gli interessi della comunità. Tale struttura ugualitaria è stata spesso indicata come riferimento tradizionale della democrazia Saharawi.
Prima dell’arrivo degli spagnoli le tribù saharawi erano numerose, 40 secondo la tradizione, riunite in una confederazione.
Verso la fine del periodo coloniale, il popolo Saharawi appariva già largamente sedentarizzato e urbanizzato, ma sempre attaccato alle proprie tradizioni.

Le spartizioni coloniali del Sahara
Nel 1884 il trattato di Berlino sancisce i confini del Sahara Occidentale, colonia spagnola abitata dal popolo Saharawi, rispetto a Marocco e Mauritania, colonie francesi.
Ma solo con le convenzioni di Parigi del 1900 e 1904 e di Madrid del 1912 si arriva alla definitiva delimitazione dei confini del possedimento spagnolo. In assenza di autorità spagnole, erano i francesi che si incaricavano di far rispettare i confini.
Nel 1934 l’amministrazione spagnola attribuisce alla popolazione uno stato civile e un documento di identità con l’introduzione di un visto obbligatorio per la transumanza in territori francesi. Si consolida così nel tempo l’autoidentificazione della popolazione autoctona ed il sentimento dell’appartenenza territoriale al “Sahara spagnolo”, che termina con i confini al di là dei quali occorre il “visto”.
Nel 1973 nasce la prima forma di resistenza organizzata del popolo Saharawi con il nome di FRONTE POLISARIO (Frente Popular para la Liberaciòn de Saguia el-Hamra de Rio de Oro), il cui manifesto prevede la lotta fino all’indipendenza e al riconoscimento della sovranità sulla propria terra.
Già prima dell’occupazione spagnola, altri paesi, quali Marocco e Mauritania, avevano mostrato il loro interesse verso questo particolare territorio, ma per la prima volta nel 1974 si accordarono segretamente su una possibile spartizione di zone e risorse naturali.

Le risoluzioni dell’O.N.U.
Nel l960 1’Assemblea Generale dell’ONU riconosce il diritto dei popoli all’autodeterminazione. A partire dal 1963, anche il Sahara Spagnolo viene incluso nella lista dei territori cui tale principio deve essere applicato.
Nell’agosto 1974, il governo di Madrid informa il Segretario generale dell’ONU dell’intenzione di tenere un referendum per l’indipendenza del Saharawi, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, entro i primi sei mesi dell’anno successivo, e nell’autunno del 1974 procede al primo censimento della popolazione. E’ nel 1975 che una commissione ONU riconosce il diritto del popolo Saharawi all’autodeterminazione e all’indipendenza, anno in cui la Spagna (in cambio di una sostanziosa buona uscita – Accordo di Madrid l975) si ritira definitivamente dal territorio, che viene immediatamente occupato dal Marocco e dalla Mauritania, lasciando il Polisario a dover affrontare una sanguinosa guerra su due fronti.
Una parte del popolo, per sfuggire al genocidio che lo ha decimato, si rifugia presso Tindouf, città del deserto algerino che tuttora protegge e ospita i profughi Saharawi.
Il Marocco, che all’annuncio del referendum vede vanificati i suoi disegni di estensione della sua sovranità anche sul Sahara, tenta di mascherare l’invasione con una marcia popolare di occupazione pacifica di 350000 persone. I marciatori reclutati in tutto il paese, ricevono la consegna di una copia del Corano e bandierine verdi, il colore dell’Islam: da qui l’appellativo di “Marcia Verde” dato all’operazione. In realtà si tratta di una vera invasione nel territorio Saharawi con forze di polizia e militari.
La preoccupazione principale del Polisario diventa la protezione della popolazione civile dagli attacchi dell’esercito marocchino. Migliaia di persone si danno alla fuga attraverso il deserto fino al confine algerino, dove, nei pressi di Tindouf, viene allestita una prima tendopoli di accoglienza. L’esodo di massa avviene sotto i bombardamenti dell’aviazione marocchina.
L’anno dopo l’ONU condanna l’accaduto, ma senza intervenire concretamente.
Nel l976 il Fronte Polisario decide di proclamare l’indipendenza e la nascita della Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD), riconosciuta da 74 paesi.
Nel 1978, in seguito ad un golpe militare interno, la Mauritania rinuncia al conflitto e il nuovo governo stipula un accordo di pace col Polisario; il Marocco approfitta della situazione e raddoppia i suoi sforzi bellici arrivando ad occupare anche la parte meridionale del Sahara occidentale.
Nello stesso periodo la Spagna riconosce l’autorità del Polisario.
Nel 1982 la Rasd diventa il 51° stato membro dell’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) e il Marocco, per protesta, se ne dissocia.
Nel 1985 il Marocco ufficialmente si mostra disponibile ad un referendum per l’autodeterminazione dei Saharawi, confidando sul fatto che ormai la popolazione presente nei territori rivendicati è costituita in buona parte da coloni marocchini.
Inoltre, il Marocco ha quasi ultimato la costruzione di un muro lungo circa 2.700 km, realizzato a difesa dei territori occupati. Questi muri, costruiti in tempi successivi dal 1981 al 1986 si snodano su un percorso dal sud del Marocco fino alla costa atlantica al confine della Mauritania racchiudendo circa 200.000 kmq. I muri sono di sabbia e pietrame, preceduti da campi di mine (molte delle quali sono italiane) e controllati da sistemi elettronici di sorveglianza e da punti di guardia armati a distanze regolari.
Nel 1988 una tra le moltissime risoluzioni ONU, mai rispettate dal Marocco, stabilisce l’adozione di un piano di pace.
L’anno dopo anche il parlamento dell’Unione Europea adotta una risoluzione a favore dell’autodeterminazione.
Il 30 Agosto dello stesso anno nasce l’operazione MINURSO (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale), che, tra gli altri, ha lo scopo di: “verificare il cessate il fuoco, controllare la riduzione delle truppe marocchine presenti sul territorio, assicurare il rilascio di tutti i prigionieri politici o detenuti del Sahara Occidentale, mettere in pratica un piano per il rimpatrio dei profughi – e infine – organizzare un referendum assicurandone il libero svolgimento e rendendone noti i risultati”.
Il 28 giugno 1991 Marocco e Fronte Polisario accettano una tregua e fissano il referendum per gennaio 1992, da eseguirsi secondo le liste del censimento spagnolo del 1974. Il 4 ottobre, il Marocco, tramite l’organizzazione di una seconda Marcia Verde, conduce nei territori dei Saharawi 155.000 coloni marocchini, portando il rapporto marocchini/saharawi a 7/1, riducendo ad una farsa l’eventuale referendum.
Nel 2000, una volta terminata la lista degli aventi diritto al voto, il re marocchino Mohamed VI non consente il regolare svolgimento del Piano di Pace dell’ONU.

I Saharawi oggi
Attualmente i Saharawi sono circa 200.000 e vivono profughi in tendopoli immerse nell’estremo Sud-Ovest del deserto Algerino.
Di loro si parla poco, come di tutti i popoli “dimenticati”, le cui rivendicazioni vanno a turbare interessi consolidati ed equilibri internazionali delicati. I rifugiati Saharawi sono i sopravvissuti al grande esodo: interminabili marce nel deserto, inseguiti dall’aviazione marocchina avvenuta nel 1975.
25 anni di vita nella zona considerata tra le più invivibili del nostro pianeta.
I rifugiati sono distribuiti in 40 distinte tendopoli, ciascuna delle quali assume ai fini amministrativi il nome e le funzioni di un distretto regionale (Wilaya): El Ayoun, Smara, Dakhla Ausserd.
Ogni wilaya è divisa in 6 o 7 “province”, anch’esse con il nome di una provincia saharawi (daira). In questo modo, attraverso l’organizzazione spaziale dei campi, si ricrea l’identificazione ed il legame con la patria di origine.
I Saharawi hanno voluto costruire un’organizzazione sociale dove tutti sono chiamati a ruolo attivo, dove sono
valorizzati gli anziani e soprattutto dove le donne condividono responsabilità a tutti i livelli. La priorità spetta all’educazione ed alla sanità, dove il ruolo delle donne è particolarmente importante. Tutti i giovani sono scolarizzati a livello elementare e ora anche medio ed esiste malgrado lo scarso materiale sanitario, una diffusa medicina di base.
Gran parte dei mezzi materiali provengono dalla solidarietà internazionale.
Il largo margine di autonomia e di iniziativa lasciato ai Comitati di base, ha stimolato l’ingegnosità e la creatività saharawi, che si esplica in attività come il recupero e il riciclaggio di qualunque tipo di materiale e nella creazione di esperimenti agricoli.
Il territorio che ospita i campi profughi è di circa 100 kmq, ed è completamente desertico, piatto, ricoperto di sassi e sabbia (Hammada). Il clima è, ovviamente, di tipo desertico con piovosità quasi assente. La temperatura varia nelle due stagioni: estate ed inverno, raggiungendo i 45°-60° in estate e i 5° sotto zero nelle notti d’inverno.
La vegetazione è assente eccetto rarissimi alberi a spine ed una oasi naturale di poche vecchissime palme. L’acqua è, reperibile a breve profondità, ma ha una elevata salinità fino a renderla non potabile. La vita nei campi scorre lenta, turbata solo dal rumore continuo dei pochi generatori, che garantiscono l’energia elettrica agli ospedali e ai centri di accoglienza.
Nelle tende, per i più fortunati, la luce è garantita dai pannelli solari, per altri non resta che la luce fievole del gas.
Nella monotonia del paesaggio spiccano i colori delle donne saharawi, che avvolte dai loro mantelli trasparenti dai colori vivacissimi si occupano dell’amministrazione dei campi, e il sorriso dei bambini che giocano con pietre e sabbia.
In un universo materialmente povero all’inizio le tende erano fatte con pezzi di stoffa incessantemente ricuciti in una lotta senza tregua contro il vento ma simbolicamente ricco, la vita dei rifugiati si è organizzata in un modello comunitario del tutto unico al mondo.
Sono vecchi, donne e bambini a popolare le tende e le case di sabbia. La maggior parte degli uomini sono al fronte a proteggere il fazzoletto di terra conquistato negli anni.
I Saharawi non nascondono la loro povertà come se fosse una vergogna: al contrario sanno valorizzare e nobilitare il poco che hanno, al punto che le stesse tendopoli, messe su con gli aiuti umanitari, che in tanti altri posti al mondo sono inferni senza redenzione, qua sembrano villaggi millenari. Sono capaci di scrivere con i colori, con la luce, con i materiali più poveri sulla grande tela che è il deserto. Le tendopoli Saharawi, non sono certo un paradiso dove trascorrere le vacanze. E’ duro nascere e vivere in un ambiente al limite della sopravvivenza, dove manca il bene più prezioso: l’acqua. Cisterne dell’ONU riforniscono ogni 15 giorni i cubi scatole di metallo chiusi da rudimentali sportelli dove, soffiata dal vento, inclemente la sabbia entra a inquinare quell’acqua leggermente salata e resa potabile dall’aggiunta di cloro.
Acqua che travasata in una varietà di recipienti deve bastare per tutto e per tutta la famiglia, centellinata e recuperata goccia dopo goccia. In queste condizioni i bambini crescono consapevoli di tutti i disagi e di tutte le esigenze della famiglia e fieri di appartenere al popolo della sabbia.