Le due ambulanze, presentate a Genova il 19 luglio 2004, sono state donate da Ya Basta! ad OSIMECH, (organizzazione che si occupa della salute degli indigeni maya dello stato del Chiapas), che dalla data della sua formazione lavora nella regione degli Altos del Chiapas, Messico.
Le due ambulanze serviranno a rinforzare maggiormente il progetto dell’Associazione Ya Basta! di sostegno alla creazione di una rete sanitaria autonoma in quella regione.

Questo progetto, in costante sviluppo, ha finora portato alla creazione di 9 strutture sanitarie completamente gestite da personale indigeno e zapatista. Queste strutture sono: una clinica (“La Guadalupana” situata nel “Caracol” di Oventic) ed 8 microcliniche. All’interno di questi luoghi lavora esclusivamente personale indigeno appositamente formato che ha deciso di contribuire al percorso della lotta zapatista attraverso l’importantissimo aspetto della tutela della salute, altrimenti negata, nelle comunità in resistenza. 

Le due ambulanze permetteranno:
– il trasporto di pazienti dalle microcliniche (strutture sanitarie basiche) alla Guadalupana di Oventic (clinica a tutti gli effetti, dotata di sala operatoria, ambulatorio odontoiatrico, ambulatorio ginecologico, laboratorio di analisi, farmacia, laboratorio di medicina naturale, tradizionale e maya), infatti il territorio interessato dal progetto sanitario è particolarmente vasto;
– la possibilità per i “promotores de salud”, indigeni volontari che svolgono le mansioni sanitarie, di muoversi con maggior facilità ed efficacia nelle comunità indigene, migliorando così l’educazione sanitaria nelle stesse;
– il trasporto dei pazienti che da Oventic necessitano di consulenze specialistiche in altri luoghi.

In generale quindi il possesso di un’ambulanza permetterà certamente le possibilità di migliorare le condizioni di lavoro dei promotores e contemporaneamente le possibilità per le comunità di contare su un servizio sanitario maggiormente efficiente.
Come compagne e compagni dell’Associazione abbiamo deciso di dedicare questi due importantissimi mezzi alla memoria di Carlo Giuliani e Davide “Dax” Cesari. Questo per noi rappresenta un modo per collegare simbolicamente diverse forme di lotta al neoliberismo in differenti luoghi del pianeta.

Le due ambulanze sono state acquistate grazie al sostegno di: svariate associazioni; amministrazioni pubbliche; centinaia di lavoratori che hanno destinato a questo progetto (attraverso il sindacato CUB) l’equivalente economico di un’ora del proprio lavoro; i gruppi musicali Al Mukawama e Banda Bassotti; collettivi studenteschi, acquirenti del “Cafè Rebelde”.


Le ambulanze sono arrivate in Chiapas!

Marco Coscione – Dal Chiapas la speranza per una nuova politica


Viaggio in Chiapas

dal 02 al 14/09/2005, di Haidi Giuliani

Da Rignano Garganico a Tuxla Gutierrez

Non sembra neppure di volare: fuori è tutto buio, anche se stiamo rincorrendo il sole; dentro c’è il solito tramestio di chi non si decide a mettersi a dormire. Il nostro gruppo, per ora, è formato da sei persone; abbiamo riso e scherzato, dopo gli abbracci in aeroporto, ma anche se non ne parliamo è come se ce ne fossero altri tre, con noi: tre ragazzi, due già amici e uno che lo sarebbe sicuramente diventato. Ed è con Carlo, Edo e Dax (nell’ordine in cui ce li hanno tolti) che viaggiamo verso il Messico. Da Madrid ci vuole più o meno il tempo che alcuni treni impiegano per raggiungere, da Genova, Rignano Garganico. Forse penso a Rignano, in questa notte buia, per il suo cielo luminoso, spazzato dal vento del promontorio, per la vista impagabile dal bastione, le bandiere rosse e quelle della pace che i compagni avevano legato alte e orgogliose sulla piazza, quando ci sono stata, un paio di settimane fa; o forse proprio per loro, per quei compagni generosi (le compagne sarebbero arrivate dopo, a festa iniziata) che dal paese erano partiti soprattutto o esclusivamente in cerca di lavoro, tanto che a parlare di migranti in quella terra di Puglia la voce aveva tremato più del solito.

E’ stato Ya Basta! a portarmi in Messico: prima ha spedito due ambulanze via mare; le ritroveremo ad Oventic, mi dicono, per la cerimonia della consegna, insieme ai compagni e alle compagne. Naturalmente in passato ho letto alcuni libri sulla resistenza indigena ma ora non ho il tempo per preparare questo viaggio, sempre affannata a correre di qua e di là, così chiedo aiuto a mio fratello che da vent’anni vive in Centroamerica e che mi scrive:
“Pochi Italiani conoscono la definizione ufficiale del Messico: Estados Unidos Mexicanos. Sono una trentina gli Stati e quello chiamato Chiapas è il più meridionale, a sei ore da Greenwich e a cavallo dei paralleli 14, 15, 16 e 17. San Cristòbal de Las Casas (terza città dello Stato, con circa centomila abitanti) è sul parallelo di Kartum e di Manila. Quando batte il sole fa caldo, naturalmente, trovandosi in piena zona tropicale. Ma se il cielo è nuvoloso, o di notte, fa abbastanza freddo per i 2000 metri di altitudine, circondati da colline sui 2400.
Il territorio del Chiapas è circa un quarto di quello italiano; secondo il censimento del 1990, avrebbe circa tre milioni e duecentomila abitanti, ma bisogna tener conto che gli indigeni difficilmente vengono registrati negli Uffici dell’Anagrafe. Per trecento anni Colonia spagnola, il Chiapas fu Provincia amministrata dalla Capitania General de Antigua Goathemala, come Cuscatlan (El Salvador), Honduras, Nicaragua e Costa Rica. Ma dal 1824 i coloni, appoggiati dai meticci, scelsero di chiedere l’annessione al Messico (naturalmente senza interpellare la maggioranza indoamericana).
Comunque, fino alla metà del ventesimo secolo, il Chiapas dei discendenti degli spagnoli e dei meticci (frutto dell’incrocio tra spagnoli ed indigeni) è stato sostanzialmente uno Stato a sè, poco collegato al resto degli Stati messicani. Invece, da parte delle popolazioni mantenutesi indigene, non vi è mai stata una separazione del mondo Maya, tra Guatemala e Chiapas. Ad esempio, nella recente pluridecennale guerra civile in Guatemala, almeno centomila indigeni dei territori prossimi al Chiapas hanno trovato rifugio presso le popolazioni sorelle, attorno a San Cristòbal. Dall’epoca della Conquista (sedicesimo secolo) ad oggi, gli indigeni del Chiapas hanno sempre lottato contro gli usurpatori spagnoli e i loro discendenti creoli e meticci, sempre alleati dei bianchi e perfino più crudeli ed oppressori dei primi.
Cinquecento anni fa Jovel, nome indigeno di San Cristòbal, era un popoloso insediamento precolombiano. Dopo numerosi scontri, spesso perdenti, gli spagnoli invasori riuscirono a scacciare gli indigeni che, decimati, dovettero rifugiarsi sulle colline circostanti. Da queste colline (Los Altos) la resistenza indigena è sempre continuata, con episodi di insurrezione e tentativi di riconquistare la stessa San Cristòbal, come nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Il potere centrale messicano ed il suo esercito non hanno mai modificato il proprio carattere etnocida: basti ricordare che, a tutt’oggi, vi sono migliaia di indigeni sfollati dalle loro Comunità, dalle loro terre, e costretti a sopravvivere nel Municipio autonomo di Polhò; o la strage di una cinquantina di indigeni indifesi, prevalentemente donne e bambini, perpetrata nel 1997 da forze paramilitari, con la complicità dell’esercito, nella vicina località di Acteal”.
Non ho avuto tempo per prepararmi, dicevo, ma un salto in libreria l’ho fatto comunque perché un viaggio importante non si può fare senza una cartina e un buon libro che ti tenga compagnia, che sia in un certo senso un viaggio nel viaggio: il giovane compagno a cui chiedo spesso consiglio prende dallo scaffale Un indovino mi disse, di Tiziano Terzani.
“… Appena si decide di farne a meno, ci si accorge di come gli aerei ci impongono la loro limitata percezione dell’esistenza; di come, essendo una comoda scorciatoia di distanze, finiscono per scorciare tutto: anche la comprensione del mondo… Raggiunti in aereo, senza un minimo sforzo nell’avvicinarli, tutti i posti diventano simili; semplici mete separate fra di loro solo da qualche ora di volo. Le frontiere, in realtà segnate dalla natura e dalla storia e radicate nella coscienza dei popoli che ci vivono dentro, perdono valore, diventano inesistenti , per chi arriva e parte dalle bolle ad aria condizionata degli aeroporti, dove il confine è un poliziotto davanti allo schermo di un computer, dove l’impatto con il nuovo è quello con il nastro che distribuisce i bagagli, dove la commozione di un addio viene distratta dalla bramosia del passaggio obbligato attraverso il free duty shop, ormai uguale dovunque… Gli aeroporti, falsi come messaggi pubblicitari, isole di relativa perfezione anche nello sfacelo dei paesi in cui si trovano, si assomigliano ormai tutti; tutti parlano nello stesso linguaggio internazionale che dà a ciascuno l’impressione di essere arrivati a casa. Invece si è solo arrivati in qualche periferia da cui bisogna ripartire…”
Per accorgerci di volare dobbiamo salire sul terzo aereo; le nuvole lasciano intravvedere a tratti minuscoli villaggi e terreni lavorati: laggiù potrebbero essere dolci colline toscane, verdi boschi umbri; quel fiume marrone di fango ricorda le acque inquinate del Po; ma la cima nevosa di un vulcano mi riporta alla realtà.

Visita al Caracol di Oventic

I Caracoles, che si trovano in cinque diverse zone del Chiapas, sono spazi di incontro politico e culturale; sono nati con le Giunte di Buongoverno e devono il loro nome alla chiocciola o conchiglia, antico simbolo indigeno che gli zapatisti usano per rappresentare il loro modo di fare politica, lo scambio continuo e il divenire, per la forma a spirale aperta.
“Esta usted en territorio Zapatista en rebeldìa. Aqui manda el Pueblo y el Gobierno obedece”, avvertono alcuni cartelli lungo la strada. Che sia il popolo a comandare non dovrebbe stupire gente come noi, venuta da un Paese che si dice democratico, eppure le scritte mettono allegria, e non solo per i dipinti, alcuni raffinati altri ingenui e quasi infantili, che le accompagnano e che colorano le pareti di ogni capanna o baraccone, dalla scuola primaria alla tienda dove si può comprare un po’ di tutto, generi alimentari, prodotti di artigianato locale, discorsi di Marcos, fogli di lamiera ondulata – con cui si coprono tutte le costruzioni, sia di legno che di fango o cemento – e, naturalmente, Coca Cola. Dico naturalmente perché qui, come in tutto il Chiapas, questo è in assoluto il prodotto più pubblicizzato e commercializzato, anche perché costa la metà dell’acqua minerale e fa dimenticare un po’ la fame che la scarsa dieta a base di mais e fagioli non riesce a placare. Naturalmente causa fin dalla prima infanzia disturbi gastrointestinali ma pare che sia quasi impossibile metterne in discussione il consumo e d’altra parte molti compagni europei, privati di birra e vino (gli alcoolici sono banditi da tutti i territori zapatisti, come qualsiasi tipo di droga), danno il cattivo esempio. Al cancello fanno la guardia alcune persone col passamontagna, altre con il caratteristico fazzoletto sul volto: ritirano i nostri passaporti, ci chiedono gentilmente di aspettare. Ed ecco che dal fondo del recinto del Caracol sale lentamente verso di noi una folla di persone variamente vestite: le donne e le bambine tutte nei loro abiti tradizionali (colori e ricami cambiano da zona a zona, a secondo del gruppo di appartenenza, pare in seguito ad una antica imposizione dei conquistatori spagnoli); i rappresentanti del Municipio autonomo con i loro cappelli ornati di nastri multicolori; quelli del Buongoverno; uomini e bambini, sia in pantaloni e camicia sia con ill poncho, molti a piedi nudi, moltissimi con il viso coperto, anche i più piccoli. Camminano in silenzio, preceduti da una banda di strumenti artigianali, e si dispongono in più file ai lati della strada: in mezzo a questa Calle de honor passano le due ambulanze e passiamo noi, tra vari battimani nostri e loro, fino all’Auditorio, un grandissimo capannone sorretto da pali di legno, coperto di lamiera e con il pavimento di terra battuta. All’interno veniamo fatti accomodare su due lunghe panche mentre su un palco, dove troneggiano le casse dell’impianto di amplificazione, iniziano i saluti delle autorità e una giornalista di Radio Insurgente registra il tutto. Dopo parleremo anche noi, naturalmente, e ci saranno le traduzioni in spagnolo e in tzotzil, e per tutto il tempo questo piccolo popolo indigeno resterà in piedi in silenzio ad ascoltare con una compostezza e una dignità straordinarie. Guardo alcune madri con i bambini tranquilli, fasciati sulla schiena o addormentati sul petto, e penso allo spettacolo indecoroso di molti cosiddetti dibattiti sulle nostre reti televisive; guardo un ragazzino di cinque o sei anni, col suo passamontagna di lana, le braccia incrociate, e penso a certe risse tra parlamentari, alla volgarità di certi nostri cosiddetti onorevoli. E mi vergogno. Loro, così poveri, così analfabeti, così dimenticati dal Governo ufficiale del Paese in cui sono nati – fin dalla notte dei tempi – da non venire neppure censiti, loro ci insegnano che cos’è la partecipazione, l’attenzione, il rispetto. E la generosità, perché per noi è stato ammazzato il toro e dopo la cerimonia ci viene offerta, nella cucina del piccolo ospedale, nera di fumo, una meravigliosa zuppa con le immancabili tortillas di mais e una spremuta di limoni, quelli piccoli e verdi, dolci e profumati. Mentre mangiamo – solo noi – il gruppo musicale esegue i pezzi del repertorio tradizionale e zapatista, senza rinunciare al fazzoletto, neppure il cantante, non appena ricompaiono le macchine fotografiche.

La Guadalupana, la clinica che visitiamo nel pomeriggio, è una delle tre maggiori nei territori autonomi, da cui dipendono una decina di microcliniche organizzate, come le scuole, dalla Giunta del Buongoverno. E’ formata da una struttura centrale, di cemento grezzo, a cui sono state aggiunte via via altre parti: anche Ya Basta! ha partecipato alla sua costruzione con una Brigata di lavoro, dopo la nascita dei Caracoles, ed è con legittimo orgoglio che i compagni e le compagne visitano le stanze dove ci conduce Anastasio, uno dei Promotores, responsabile del coordinamento. Sono piccole, le stanze, ma pulite e ordinate, e per gli indigeni che negli altri ospedali non vengono curati – per la grande povertà, la distanza dalle città e perché non sanno parlare spagnolo e quindi non riescono a comprendere e a farsi comprendere dai medici – sono davvero preziose. C’è il pronto soccorso, naturalmente; una farmacia fornita sia di prodotti dell’industria farmaceutica che di medicine naturali, ricavate dalla lavorazione delle erbe locali; un minuscolo laboratorio di ottica, con una mola per lavorare le lenti (per fare un esempio: acquistare un paio di occhiali costa almeno mille pesos, cioè tre volte lo stipendio a cui può aspirare un indigeno; nelle cliniche zapatiste, invece, tutti vengono curati gratuitamente, anche chi indigeno non è ma solamente povero…). C’è il consultorio generale, dove vengono visitati i pazienti, e il laboratorio del dentista, che viene nei giorni e nelle ore indicate sulla porta. C’è la stanza per la ginecologia, che è anche sala parto, e i promotori stanno sviluppando nuovi reparti presso le microcliniche e organizzano incontri per la pianificazione familiare, con un lavoro capillare di prevenzione e informazione presso le varie comunità. Tra poco sarà pronta anche una nuova sala, completamente piastrellata, per le operazioni più impegnative; il chirurgo napoletano che vive qui per alcuni mesi all’anno ce la mostra sorridendo: “oh, mancano molte cose” dice “ma lo spazio per lavorare c’è, anche quello personale”.
Ritornando a San Cristòbal, tra le luci, i negozi e i ristoranti del centro frequentato dai turisti, provo una fitta al cuore a vedere le donne indigene che nella strada cercano di vendere i loro bellissimi ricami per pochi pesos, cariche di figli e di stoffe tessute la notte con un grezzo telaio a mano, le vecchie a piedi nudi, i bambini che imparano a elemosinare…

Visita al Caracol de la Garrucha

La strada questa volta è molto più lunga e scende tra paesaggi da fiaba: prima sono i boschi, verdissimi, poi l’orizzonte si apre continuamente a nuove colline, improvvisamente cancellate dalle nuvole che ci avvolgono a tratti.
Dopo un bel po’, lasciata Ocosingo, lasciamo anche l’asfalto; le erbe alte ai bordi della carreggiata nascondono piccoli viottoli ombrosi che si inoltrano verso i campi di mais e le abitazioni sparse, per lo più povere baracche di legno e lamiera, che si mimetizzano tra le piante e la terra: non riuscirei quasi a vederle se non fosse per gli scoppi di colore di qualche buganvillea e di altri fiori coltivati nei dintorni. Procediamo lentamente, per via delle buche e delle vaste pozzanghere che il nostro furgoncino attraversa con cautela. Per fortuna non piove. A bordo, un po’ per il caldo che qui si fa sentire, un po’ per gli scossoni, si è fatto silenzio. Ho perduto il senso del tempo (troppo complicato districarsi tra ora italiana, ora messicana, ora zapatista), ho “dimenticato” a casa l’orologio insieme al telefono cellulare e mi lascio portare, felice di non dover decidere la direzione da prendere, in tutti i sensi, almeno per qualche giorno. So solo che laggiù, ancora più lontano, c’è la Selva Lacandona.
Quando arriviamo, il cancello del Caracol è aperto: attorno a un grande spiazzo pianeggiante e fangoso ci sono diverse capanne, le pareti di legno quasi tutte decorate con disegni, frasi e simboli zapatisti. Enmascarnos para desmascarar al poder que nos humilia (ci mascheriamo per smascherare il potere che ci umilia), si legge vicino a un gruppo di volti stilizzati, dai grandi occhi neri, con passamontagna; da un’altra parte sono due mani che offrono delle pannocchie di mais incappucciate e di diverse sfumature: El maiz es de todos los colores como tod@s nosotr@s (il mais è di tutti i colori come tutti e tutte noi). Naturalmente non mancano caracoles dipinte in tutte le fogge e dimensioni e io penso a quelle che Marcos aveva invitato a disegnare, nella sua lettera al presidente dell’Inter, sulla base del monumento a Cristoforo Colombo, a Genova, per ricordare che “cinquecento anni bastano”, come ama ripetere il nostro caro don Gallo.
Siamo ricevuti prima dalla Commissione di Informazione, poi dal Comitato di Vigilanza: passaporti, luogo di provenienza, motivo della visita… Altra attesa, e veniamo accompagnati nella stanza dove è riunita la Giunta del Buongoverno: passaporti, luogo di provenienza, motivo della visita… Guardo i miei giovani compagni, che aspettano anche loro pazientemente, e mi chiedo quale sarebbe il nostro grado di sopportazione di fronte a tanta burocrazia in un qualsiasi ufficio di un qualsiasi Paese europeo. Ma la fatica con cui la persona incaricata sta copiando i nostri nomi, cognomi, professioni, merita tutta la nostra solidarietà e concludo che, a volte, perfino le pratiche burocratiche possono essere utili: per imparare come ci si autogoverna e, perché no, per imparare a scrivere.
Pasaron 55 autoridades en este ano; 18 mujeres (donne); se hacieron 40 turnos; cada turno durò 10 dias, leggo su un cartello. Durante i giorni in cui una persona ricopre un incarico pubblico, dato che non viene pagata per questo lavoro, come si mantiene? Mi spiegano che è la comunità di provenienza a farsi carico delle sue necessità, come di quelle dei suoi familiari. Naturalmente si tratta di necessità primarie, penso, non certo di stravizi; di palazzi, ville, panfili, aerei, pacchetti azionari… Tutti i problemi di corruzione nelle nostre società sviluppate sarebbero presto risolti, con questo sistema, e non ci sarebbe da affrontare (o da fingere di voler affrontare) la “questione morale” della politica!
Anche qui c’è una piccola clinica, dono del volontariato internazionale, come ricorda un murale sulla facciata: nella notte, dal furgone dove dormiamo in tre (gli altri si sono sistemati con le amache nello spazio riservato agli osservatori stranieri), vedo uscire un gruppo di persone con un malato che si lamenta a voce alta. La piccola ambulanza che lo trasporterà in un ospedale più attrezzato dovrà percorrere la lunga strada sterrata e tornerà solo a mattina inoltrata.
Abbiamo terminato la visita; alcuni di noi, prima di ripartire, vanno alla piccola tienda che, sprovvista anche di caffè, offre almeno la possibilità di bere una tisana calda; qualcun altro scatta fotografie; io rimango a guardare un gruppo di uomini, di varie età, che fanno la spola tra il Caracol e una cava di ghiaia lontana qualche centinaio di metri. Trasportano i sacchi sulla schiena zuppi per la pioggia della notte, legati a una striscia di cuoio che passa sulla fronte, come gli indigeni usano fare con i grandi pesi. Il mucchio di brecciolino aumenta molto lentamente e faticosamente. Domando perché non si usano, per questo lavoro, i due camioncini parcheggiati poco distante. Con un po’ di sorpresa e un certo imbarazzo – la domanda è forse troppo indiscreta – mi viene risposto che i camioncini in effetti sono lì da un paio di mesi ma che la Giunta non ha ancora deciso la loro destinazione. Ah, la burocrazia… neanche in territorio zapatista è del tutto innocua.

Oggi abbiamo appuntamento con i rappresentanti delle due cooperative del caffè, con la cooperativa dell’artigianato delle donne e con i promotori della scuola.
Le cooperative del caffè hanno forti problemi perché i coyotes, cioè gli intermediari, vanno offrendo un prezzo molto più alto ai singoli produttori: è chiaramente una guerra commerciale nei confronti delle cooperative, finanziata non si sa da chi ma è facile intuirlo. I responsabili hanno un incarico elettivo, a rotazione, e ci spiegano come avviene la semina delle piantine che richiedono tre o quattro anni di cure prima di diventare produttive. La raccolta e la lavorazione dei chicchi è completamente manuale e varia a secondo della qualità e la zona di coltivazione: man mano che le bacche maturano vengono messe a fermentare nelle vasche, poi si lavano (se si sbaglia il momento si deve buttare via tutto) e si mettono ad essiccare. Dopo qualche giorno si ripassano per togliere la pellicina dalla polpa, infine si insaccano e si portano ai magazzini di stockaggio. La tostatura e l’eventuale macinazione avvengono dopo il trasporto.
Nella Tienda de Artesanias de mujeres en resistencia de Los Altos de Chiapas ci aspettano una ventina di donne di diverse età, alcune con in braccio i bambini che resteranno calmi e tranquilli fino alla fine dell’incontro. Le donne hanno tutte i loro bellissimi abiti tradizionali e sono ben pettinate, poche hanno sandali ai piedi; parlano a voce bassa tra loro e rispondono alle domande dopo aver riflettuto; due o tre tengono gli occhi chiusi e dormono, discretamente, sedute ben diritte sulle panche. Companeros y companeras buenas tardes, aquì semos juntos… la presentazione come la conclusione della riunione hanno un tono formale; i sorrisi verranno, in seguito alle nostre domande e dopo, durante i saluti. Le cooperative, nate nella seconda metà degli anni novanta, raccolgono alcune centinaia di socie ciascuna, suddivise tra le varie Comunità nei Municipi autonomi; neanche ora riescono ad ottenere un prezzo equo per i lavori artigianali prodotti (stoffa realizzata a telaio, cucito, maglia, ricamo, lavorazione del cuoio, del legno, dell’ambra) e le donne sono spesso costrette a un surplus di lavoro, oltre alle ore che settimanalmente dedicano alla propria cooperativa, per andare a vendere per le strade di San Cristòbal a un prezzo ancora inferiore: il risultato di tanta fatica è solo un piccolo contributo per sostenere le necessità della famiglia, perché negli Altos la terra non dà molto. Qualcuno chiede che cosa ne pensano i mariti, le donne ridono tra loro poi una risponde per tutte: “Si lamentano quando non trovano pronto da mangiare”. Già, questa è anche una scuola di emancipazione.
La scuola vera e propria si trova in fondo al Caracol ed è formata da diversi padiglioni con struttura in cemento: ci sono le aule per i primi anni, quelle per la secondaria e quelle dove vengono formati i Promotores; c’è una piccola cucina che serve la mensa per tutti, le stanze dove dormono gli e le insegnanti. “Riceviate un saluto fraterno dal Sistema educativo delle Zone Alte del Chiapas: siamo qui per ascoltarci a vicenda e ne siamo contenti…”, inizia uno di loro; e un’altra: “Sappiamo che siete venuti da molto lontano ed ora soffrite con noi la pioggia ed il fango, questo dimostra che non siamo soli, la lotta che stiamo facendo è un modo di opporsi al malgoverno e l’educazione è un’arma in più, un’arma importante…”; e un terzo: “Per cinquecento anni gli sfruttatori non hanno mai dato un’educazione utile al nostro popolo così noi, popoli originari di questa terra, abbiamo il diritto di esercitare la nostra autonomia: tramite l’educazione possiamo prendere coscienza della nostra storia e dello sfruttamento che continuamo a subire…”; e un quarto: “Abbiamo deciso di iniziare con la scuola secondaria perché i giovani che terminano la primaria (che corrisponde ad elementare e media in Italia) finiscono per rimanere nelle comunità perché, anche se desiderano continuare a studiare e ne hanno le capacità, non hanno i mezzi per acquistare i libri e mantenersi nelle città, lontano dalle famiglie…”. Un quinto prosegue spiegandoci come hanno iniziato a lavorare cinque anni fa, con un corso di tre mesi per portare i ragazzi e le ragazze allo stesso livello (alcuni avevano interrotto gli studi da qualche anno), e le difficoltà che hanno dovuto affrontare, oltre alle distanze, la mancanza di strumenti, la lingua (gli idiomi variano a secondo della zona di provenienza e moltissimi indigeni non conoscono lo spagnolo). Attualmente il Sistema educativo per la scuola primaria coinvolge otto Municipi autonomi per un totale di circa quattromila bambini e bambine. Quando Amos, il responsabile del gruppo comincia a parlare di collettivismo, di finalità educative e formative, dell’organizzazione delle classi di insegnamento, delle aree pedagogiche, il mio vecchio cuore di maestra torna indietro di molti anni, ai tempi felici in cui anche noi lavoravamo sodo, senza badare alle ore in più, in condizioni spesso difficili, insegnandoci l’un l’altro, copiando le tecniche francesi, inventando il tempo pieno, rifiutando l’adozione del manuale uguale per tutti (e attirando su di noi le ire delle potenti case editrici), rifiutando le classi differenziali (quelle dove venivano ghettizzati i figli delle famiglie più disagiate), rifiutando il voto come strumento di selezione, rifiutando di insegnare catechismo, aprendo le aule a esperienze diverse, aprendo gli spazi agli abitanti del quartiere, sognando “una nuova scuola possibile”…
Il rumore incessante della pioggia sulla tettoia di lamiera rende difficile ascoltare, ora Amos si sta rivolgendo alle “due madri” e il suo appello sa toccare le corde giuste: “…abbiamo bisogno di Promotori… vi chiediamo di mandare studenti al Centro di Cultura Maya che sostiene economicamente il nostro Sistema educativo… i vostri giovani sono andati avanti e noi li dobbiamo seguire…anche i giovani di questa scuola sono vostri figli”.

Visita al Municipio autonomo di Polhò

Gli zapatisti riescono sempre a sorprenderti. Arrivati al cancello del Caracol, questa mattina, nessuno vuole vedere i nostri passaporti, in cambio Rosa, io e il vicesindaco di Pieve Emanuele -comune gemellato con Polhò – veniamo gentilmente sequestrati da un gruppo di giovani donne col passamontagna e invitati ad entrare nella guardiola vicina: hanno preparato per noi gli abiti tradizionali e ci chiedono di indossarli. Con una doppia banda in testa, il gruppo con gli strumenti artigianali e quello giovanile, scendiamo quindi tra le casette di legno fino ad un grande spiazzo a forma di anfiteatro; da una parte tutti noi, in mezzo alle autorità, uomini e donne, in piedi davanti al palco, dove salgono i suonatori; dall’altra, lungo la gradinata e sui bordi terrazzati del prato, uomini, donne, bambini; che ridono allegramente ogni volta che il microfono, calato con il filo dall’alto, scoppietta provocando il soprassalto dell’oratore di turno. Il clima è davvero festoso: dopo i saluti di benvenuto, il discorso del sindaco e i nostri interventi commossi (il tutto in spagnolo, in tzotzil e italiano), le autorità si esibiscono in alcune danze locali; a dire il vero, da quanto capisco, non vorrebbero essere lasciate sole là in mezzo e fanno segni perché le altre persone si uniscano a loro: i compaesani ridono ma restano al loro posto; saremo noi a farci prendere dal ritmo e a mescolarci nel ballo. Ride anche Luca, che è sempre serio e impegnato a tradurre tutto e tutti, e d’altra parte come si può resistere a una simile festa della vita, così semplice e preziosa, che unisce storie tanto diverse e apparentemente lontane tra loro, in un piccolo angolo di mondo! E’ impossibile descrivere le stoffe, gli scialli, i ricami, i nastri, i disegni; i capelli intrecciati, gli occhi neri e sorridenti nel taglio del passamontagna o sopra il fazzoletto colorato legato sulla nuca; il verde degli alberi, i campi e le colline più lontane. Dalla piccola tienda nella parte alta dell’abitato il panorama si apre ancora di più ed è possibile individuare gli accampamenti dei rifugiati: domani saremo accompagnati a visitarne uno, ora c’è una zuppa saporita che ci aspetta, perché i più poveri sono sempre i più generosi; e poi ancora musica, ancora canti…

E’ mattina, ci arrampichiamo in fila indiana su per il sentiero fangoso, guidati dal responsabile dell’accampamento numero due; in tutto sono otto, ci spiega, formati dalle famiglie che nove anni fa sono fuggite dalle violenze dei paramilitari dopo la strage di Acteal; hanno dovuto abbandonare terre e abitazioni, e il governo dello Stato non ha mai mosso un dito per loro. Sopravvivono coltivando un po’ di mais e di caffè in piccoli spiazzi ricavati tra le piante, nei ripidi pendii della collina; gli uomini riescono a lavorare a turno qualche giornata alla settimana nella vicina cava di ghiaia ma gli spostamenti sono complicati dalla presenza dei militari, insediati nella zona, che mantengono un atteggiamento provocatorio nei confronti degli indigeni, anche quando ci sono osservatori stranieri.
Perfino andare a raccogliere la legna non è sempre possibile. Raccolgono l’acqua piovana con grondaie di latta che scendono dai tetti di lamiera. Hanno una piccolissima scuola per i bambini e le bambine dell’accampamento (quattro tavole di legno inchiodate e dipinte) dove viene, quando è possibile, un Promotore tre volte alla settimana.
Invitandoci ad entrare nella sua capanna, il nostro accompagnatore ha un breve singhiozzo: “Vi chiedo perdono” dice “noi siamo molto poveri”.
La notte, ritornati a San Cristòbal, io non riesco a prendere sonno: saranno le molle del letto, saranno i segni del passaggio di qualche pulcetta, sarà la lamiera che sbatte col vento, là fuori; o piuttosto il senso di impotenza, che mi soffoca, e di rabbia; sì, rabbia: penso che sia giusto arrabbiarsi, penso che mi arrabbierò sempre di più, penso che dobbiamo arrabbiarci tutti: ya basta!

La Comunità di Nueva Libertad

Siamo nell’abitazione di un compagno zapatista e della sua famiglia, una tipica casa contadina: “Mi ricorda quelle della mia infanzia, in Calabria, senza bagno, senza niente”, osserva Rosa “anche noi allora eravamo molto poveri…”. Il problema è: non possiamo diventare tutti ugualmente ricchi, tutti ugualmente spreconi, se no il pianeta scoppia, anzi, sta già scoppiando; e allora? Vogliamo rinunciare a qualche surplus, tutti?! “Certo – mi risponde qualcuno – a cominciare dai ricchi.” Ma i ricchi non cominceranno mai, lo dobbiamo fare noi, per costringere loro, siamo qui per imparare… La cucina è esterna, per via del fumo: un recinto di assi sconnesse e una lamiera sopra, ma c’è il focolare; le poche stoviglie si lavano all’aperto. Siamo invitati a mangiare ad un grande tavolo di legno, qualcuno ha portato delle sedie da fuori, mentre le donne fanno la spola; c’è una buonissima zuppa di pomodoro con uova strapazzate, naturalmente piccante, e le tortillas di mais, calde e fragranti, che si tuffano arrotolate nella scodella, e poi ci sono i fagioli e, per chi lo desidera, il caffè. In un angolo un altarino, chiuso in una teca di vetro, sorregge una bambolina circondata da uova, con qualche ghirlanda natalizia.
Nessuno, qui, porta abiti tradizionali: le cocineras indossano grembiulini a quadretti. In un angolo una viejita fuma ed io mi unisco a lei. Più tardi ci riuniamo in quella che diventerà la scuola di formazione, con la sala per le riunioni e le camere per le e i Promotori, se si troveranno i fondi per completare il pavimento e le pareti divisorie: “Siamo i rappresentanti di questa Comunità. I nostri nonni e i nostri padri erano schiavi di una finca, di un latifondo. Prima chiesero un po’ di terra da lavorare per sfamare le famiglie, poi la occuparono; il padrone però la promise ad un’altra comunità…” Così cominciò, anche qui, una guerra tra poveri “Avevamo formato una cooperativa, avevamo un mulino, una sgranatrice, un camioncino e la tienda. Essendo cattolici, avevamo letto la Bibbia e avevamo capito che ciascuno è libero di organizzarsi, senza dare fastidio agli altri, e che è necessario lottare per i diritti…” La storia continua con imbrogli di carte cambiate in tavola all’ultimo momento, di corruzione di rappresentanti sindacali, di nuove occupazioni, di articoli della Costituzione cancellati, di sgomberi, arresti, morti. Insomma, perdono tutto e ricominciano da zero. “Qui in Chiapas non c’è rispetto per il contadino, per l’indigeno. Noi non abbiamo studiato ma abbiamo capito che in molte parti del mondo si soffrono le stesse cose, la stessa povertà; abbiamo capito le strategie del Malgoverno, ci siamo resi conto che è necessario unirsi, praticare la resistenza e l’autonomia. Così abbiamo lavorato come base d’appoggio dell’EZLN”. A poco a poco sono riusciti a ricomprare un mulino, una sgranatrice, un camioncino e hanno cominciato a produrre mangime per i maiali con gli scarti del mais; i rapporti con le altre famiglie contadine della zona, che non sono zapatiste, sono sereni: anzi, alcune hanno cominciato ad usufruire della loro scuola, che risponde maggiormente alle necessità dei bambini indigeni e non li sottopone a maltrattamenti ed umiliazioni, come succede in quella governativa; e della clinica, che è coordinata con la Guadalupana di Oventic: “Una volta hanno portato un ferito,” ci racconta uno dei responsabili, con un sorriso di soddisfazione “perché nell’ospedale, che pure è molto più grande, non c’erano medici e non riuscivano a curarlo…”
Tornando al nostro furgone passiamo dalla piccola clinica: è stata costruita, con aiuti internazionali, da una Brigata norvegese; è tutta di legno, naturalmente, con il tetto che chiude perfettamente, senza fessure; nella zona retrostante, dal recipiente per la raccolta dell’acqua piovana, parte un tubicino che attira la mia curiosità e così scopro, dietro una porta, la più bella doccia che si possa desiderare. Ripartiamo nel pomeriggio inoltrato; fuori dall’abitato, nel cielo di nuovo azzurrissimo, volano due aquiloni bianchi.

L’incontro con il Subcomandante Insorgente Marcos

I compagni di Ya Basta! avevano chiesto un contatto con i Comandanti e la risposta era arrivata, positiva. Infatti, durante la cerimonia per la consegna delle ambulanze, Rosa e io eravamo state invitate fuori dal capannone insieme a Luca e lì tre persone con il volto regolarmente coperto avevano confermato l’appuntamento. Eccoci dunque in sette a fare picnic su un bel prato, come turisti vagabondi, in una località che non dirò per discrezione: non dovevamo avere fretta, non si deve mai avere fretta qui, per fortuna. Dopo un paio d’ore una persona ci raggiunge e ci comunica che dobbiamo proseguire col furgone, così e così, e poi fermarci nuovamente ad aspettare. Altre ore trascorrono lente, finchè un uomo arriva e ci invita a seguirlo fino ad una capanna poco distante: all’interno, umido e buio, illuminato da una lampadina, sul pavimento di terra sono sistemate tante sedie quanti siamo noi e, di fronte, un pancone. Non li sento neppure entrare: si dispongono in piedi, tutto attorno, e il Sup comincia subito le presentazioni. Le due giovanissime compagne al suo fianco avevano rispettivamente quattro e cinque anni nel ’94, ci dice, quando l’EZLN è uscito dalla clandestinità. Poi tocca a Luca, infaticabile traduttore, presentare noi; intanto io mi distraggo a guardare i tratti dei volti sotto i passamontagna, le mani brune, la corporatura alta e massiccia dell’altro Comandante presente che contrasta con quelle più piccole, quasi minute del resto del gruppo; i nostri ragazzi hanno gli occhi che brillano. Quando tocca a me parlare mi rendo conto che non avrò il tempo per dire tutto quello che vorrei, per chiedere quello che vorrei sapere. Marcos si informa sulla situazione politica in Italia, è lui a fare le domande, a condurre la conversazione; ad un certo punto prende una delle magliette di Dax e una di quelle di Carlo, che abbiamo portato simbolicamente in dono insieme ad un ricordo dell’ANPI, e chiede: “Ed ora, dove andrete a porre queste?” cioè i nostri figli “Sapete che dove andate voi portate anche loro?!” Sia Rosa che io siamo convinte che qui in Chiapas, tra gli zapatisti, Dax e Carlo starebbero benissimo, ma è altro quello che lui intende dire, così ci troviamo a ripetere una volta di più che i nostri figli, da vivi, appartenevano a loro stessi ma, dal momento in cui sono stati uccisi, molte persone, anche di diversa provenienza o area, si sono riconosciute in loro e questo non ci scandalizza. Quanto a noi siamo state costrette a scegliere se chiuderci nel nostro male o guardare a tutti gli altri, figli e figlie; se continuare a vivere o no, e vivere implica necessariamente continuare a scegliere… per esempio, le primarie… La discussione si anima, finchè il Subcomandante propone la foto-ricordo: ce ne saranno diverse, naturalmente, e un paio le scatterà lui stesso; e ci sarà un’istantanea anche con l’immancabile “pinguino zapatista”. E’ un uomo intelligente, ironico e colto, quello con cui abbiamo parlato, ed è un uomo piacevole, solido e asciutto, quello che abbraccio al momento dei saluti; ci stringiamo tutti la mano, calorosamente, infine usciamo prima noi: fuori il cielo è azzurrissimo e il sole fa brillare la selva e il verde dei campi. La terra e l’acqua non mancano, qui, e il mondo potrebbe essere un paradiso per tutti e per tutte, se solo non ci fossero sfruttatori e sfruttati, rapinatori ed esseri umani costretti a difendersi per sopravvivere.
Ma questa è una storia vecchia.

La sesta della Sesta

L’appuntamento per oggi è a Carmen Patatè, una località lungo la strada che porta alla Garrucha. “Ascoltare, questo è lo spirito che anima la Sesta”, aveva detto Marcos alla fine della riunione preparatoria “A coloro che invitiamo a preparare e realizzare “l’altra campagna” chiediamo di preparare e costruire uno spazio di ascolto. Uno spazio che è il luogo in cui nasce la parola, in cui trova il suo modo, la sua maniera di nominare l’ingiustizia, lo sfruttamento, il disprezzo, la repressione, la discriminazione, il dolore ed anche la sua maniera di nominare la lotta, la resistenza, il non abbandonare, il non arrendersi. Il ritornare una ed un’altra volta ancora per quello che legittimamente ci appartiene: la Democrazia, la Libertà e la Giustizia.” Già cinque incontri si sono tenuti, ogni fine settimana, con organizzazioni, movimenti sociali e politici, associazioni: tutti hanno già parlato, mi dicono, senza limiti di tempo; poi è stato il turno delle singole persone e oggi si darà spazio a chi ancora non è riuscito ad averne. Arrivando, vediamo già da lontano gli striscioni di benvenuto; ci sono alcune piccole cucine in funzione, dove si preparano le tortillas e le pannocchie bollite, rivendite di bibite, il tavolo dell’accreditamento su una pedana davanti a una pensilina. E’ stato alzato un grande tendone incerato e sotto, sulle panche, due o trecento persone sono in attesa, altre girano, in cerca di un migliore punto di osservazione: si tratta di varia umanità, dal messicano con baffoni alla biondissima in stivaloni e minimaglietta, dal ricciolone con sombrero al cinese all’afroamericano; i due berlinesi seduti vicino a me cercano un punto di terreno asciutto dove appoggiare il cavalletto per le riprese. Quando il sole è già piuttosto caldo, e siamo considerevolmente aumentati di numero, si crea una certa agitazione: tutti si spingono dal lato da cui sta arrivando, composto e silenzioso, un gruppo dell’EZLN; contemporaneamente scendono, da un altro lato, i Comandanti che prendono posto; allora tutti si spingono in avanti, nascondendo alla vista dei più il tavolo con il suo mazzolino di fiori. Scattano i flash. Peccato, penso, è stato accolto come una star: il Marcos che ho conosciuto è ben altro. Subito prende il microfono uno dei Comandanti ed elenca le sigle che hanno dato la loro adesione, quindi chiede il rispetto delle regole, condivise e decise in precedenza. Qualcuno dal fondo chiede inutilmente alle persone davanti di sedersi, i cavalletti cercano inutilmente nuovi punti di osservazione. La Comandanta Ofelia legge un comunicato che rivendica i diritti delle donne, poi tocca al Sup:
“Benvenute compagne, benvenuti compagni, benvenute altre e benvenuti altri” l’attenzione è alta, tutti tacciono “Prima di tutto, vogliamo ringraziare i compagni e le compagne del villaggio di Javier Hernández che ci riceve oggi e congratularmi con loro per un altro anniversario in più del recupero di queste terre, prima in mano dei latifondisti. E con loro ci felicitiamo anche con tutti i compagni e le compagne che in questi giorni stanno celebrando la stessa festa nei nuovi villaggi che sono nati dalle rovine delle tenute”. Marcos prosegue parlando del dibattito in corso su che cosa voglia dire essere di sinistra e che cosa significa il “che fare” di sinistra, e ad un certo punto, quasi riprendendo e ampliando il colloquio che abbiamo avuto, dice:
“… E sotto e a sinistra ci sono le parole e i modi. E ci sono le parole che vogliono dire cose differenti a secondo di chi le dice, dove le dice, quando le dice, a chi le dice e il modo in cui le dice. C’è per esempio la parola “dolore” e non è la stessa cosa che la dica un messicano sul punto di attraversare la frontiera o un indigeno quando vede come con l’inganno viene spogliato simultaneamente della terra e della cultura; o un lavoratore o un pensionato che vedono che la previdenza sociale è smantellata con decreti da coloro che si dicono preoccupati per i lavoratori; o un ricercatore o un professore di Università che constata che la scienza e la conoscenza sono valutate come un prodotto commerciale; o un giovane della città o della campagna che è perseguitato per come si veste; o una donna contadina seduta ad una tavola dove abbondano solo le mancanze; o un operaio o un’operaia che imparano sulla propria carne che significa la precarietà nel lavoro; o un disoccupato che passa dai giornali agli uffici senza trovar nulla…”
Mi guardo attorno e sono convinta che quelle parole riescano a evocare nella testa di ciascuno, come in un film, le immagini reali delle esperienze analoghe che abbiamo visto o vissuto.
“…o un militante di un’organizzazione politica represso per parole peccaminose come “democrazia”, “libertà”, “giustizia”; o una madre, moglie, figlia, parente di un desaparecido o prigioniero politico cercando risposte senza trovarle; o un pescatore che affronta la natura avversa, gli sciacalli ed i grandi consorzi; o una donna perseguitata, disprezzata e spogliata per l’unico crimine di non essere un maschio…”
La voce prosegue senza accenti, senza enfasi.
“…o una indigena sfruttata al cubo: perché povera, perché donna e perché indigena…”
D’accordo, non sono concetti nuovi, eppure smuovono emozioni, ricordano altri discorsi fatti, guarda caso, dal cocuzzolo di una Montagna.
“…o un uomo, una donna, un bambino, una bambina, in qualcuno dei molti angoli a sinistra del Messico…” e del mondo “…di sotto che dice “dolore”. Non è la stessa cosa ma è uguale. Dicendo “dolore” parlano di dolori differenti, ma quel dolore trova il ponte che li unisce in un sistema che produce quel dolore e produce coloro che lo soffrono: il capitalismo… Scopriremo che quel dolore si calma solo con la lotta collettiva e si alleggerisce solo con una nuova relazione sociale. La “altra campagna” si propone quindi di organizzare l’ascolto, di organizzare il ponte, di organizzare la resistenza, di organizzare la ribellione, di farla collettiva e di trasformarla in un movimento di trasformazione profonda e radicale, con quelli di sotto, da sotto e per quelli di sotto.
Il riassunto della “altra campagna” sta in quella frase evidente: “manca ciò che manca”. E quello che manca è un altro modo di fare politica. Siate dunque benvenuti e benvenute in questo tentativo.”
A questo punto molte persone se ne vanno a mangiare o a commentare, purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista (i due berlinesi al mio fianco sembrano molto contenti di poter finalmente scattare qualche foto); il gruppo incappucciato invece non lascia il proprio posto e non lo lascerà per diverse ore. Cominciano gli interventi, alcuni molto interessanti. Anche noi dobbiamo andare via, a metà pomeriggio, perchè la strada del ritorno è lunga.

I dintorni di San Cristòbal

E’ l’ultimo giorno, domani partiamo. Alcuni del nostro gruppo hanno deciso giustamente di andare a visitare uno dei tanti bellissimi siti archeologici maya che si trovano qui in Chiapas; già, c’è chi vorrebbe eliminare gli indigeni, per eliminare il problema della loro sopravvivenza testarda e orgogliosa, ma non le antichità che testimoniano della loro storia antica: e perché mai?! dopotutto attirano i turisti e i turisti, si sa, portano soldi. Pensando alle giornate che mi aspettano al ritorno, scelgo di trascorrere qualche momento tranquillo e silenzioso, senza lunghi tragitti in furgone, curve e tope, insieme al fratello centroamericano che chissà quando riuscirò a riabbracciare.
Arriviamo così, girovagando, nell’abitato di Zinacantan, un piccolo centro tutt’altro che artistico ma particolare per la quantità di serre (qualche palo di legno e un telone di plastica) che lo circondano; curiosando scopriamo che servono per la coltivazione dei fiori, insomma siamo capitati in una specie di Sanremo messicana. Un coltivatore ci spiega che i fiori vengono spediti in tutta la regione. Non vediamo miseria, qui, segno che dove c’è terra da lavorare non c’è fame. Proseguendo incontriamo San Juan di Chamula da dove, nell’ottocento, gli abitanti indigeni scesero ad occupare San Cristòbal. La pioggia batte forte e noi ci rifugiamo nella grande chiesa coloniale.
Internamente la costruzione è buia, ad una navata, con i transetti di legno scuro; ma attorno, lungo le pareti, su piccoli tavoli, in terra, è tutto uno sfavillio di candele. Sul pavimento, ricoperto di lunghi profumati aghi di pino, stanno diverse famigliole indigene: sedute o in ginocchio, accendono sempre nuovi ceri, dispongono uova votive, fiori, perfino bibite, e qualche bella gallina bianca. I bambini si guardano attorno, pazienti, come sempre.
Una lunga fila di teche di legno, variamente ornate, contengono bamboloni di dimensioni diverse, vestiti con abiti preziosi; rappresentano i santi: per esempio c’è un Paolo maggiore e uno minore; c’è il cuore di Gesù, il cuore di Gesù maggiore e il sagrado cuore di Gesù; e così via, in una esposizione un po’ gerarchica e un po’ pagana, una ventina per lato. Il profumo di pino e la luce delle candele mi trasportano lontano nello spazio e nel tempo, alla magia del Natale mistico e severo che nostra madre, protestante, rinnovava ogni anno per i suoi quattro figli. Una donna si alza, raccoglie poche cose, si avvicina, mi abbraccia ed esce. Forse mi ha riconosciuto. O forse voleva solo consolarmi.

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